“ … il ragazzo notò che il vecchio non cercava di togliere tutta la carne dalla pelle ma lavorava rapidamente lasciando uno strato di carne sulla pelle della schiena e ancora di più su quella del ventre.
Questi pezzetti di carne che restavano attaccati alla pelle venivano poi staccati dalle donne prima della concia e costituivano uno dei piatti favoriti dagli indiani. I bocconi di carne secca staccati dalla pelle con un raschietto, avevano l’aspetto delle patatine fritte e servivano a fare una zuppa eccellente … “. Stanley Vestal
Parliamo del possibile impiego alimentare degli ungulati selvatici analizzando alcuni fondamentali criteri per l’utilizzo, attraverso la preparazione in cucina, di questo tipo di carne.
Prima però, per capire meglio e per decidere con una certa cognizione di causa come cimentarci e quali “scuole di pensiero” eventualmente seguire, vorrei richiamare il passato.
Probabilmente , per orientarci, vale la pena di riprendere l’analisi di quale sia stata l’importanza alimentare della “selvaggina” nei diversi periodi storici e nelle diverse aree geografiche iniziando dalle civiltà strutturate e, pertanto, prescindendo dalla fase preistorica in cui qualsiasi risorsa naturale ( animale o vegetale che fosse), purché non sperimentata come tossica, doveva essere considerata importante per la sopravvivenza ed utilizzata, quando disponibile.
Per i popoli cacciatori la selvaggina rappresentava l‘alimento prevalente e ciò che derivava dalla raccolta soltanto un’integrazione: essi avevano perciò sviluppato, seppur in modo semplice, una vera e propria pianificazione dell’utilizzo di questa risorsa. Ad esempio i nativi americani delle grandi pianure utilizzavano i visceri ( in modo particolare il fegato) subito, finché era fresco ( addirittura veniva mangiato crudo subito dopo la caccia e considerato una vera e propria leccornia), altre parti venivano cucinate entro pochi giorni, mentre la conservazione avveniva per essiccamento oppure essiccamento e triturazione, mescolata insieme a grasso ed a prodotti vegetali (pemmican). Ciò come evoluzione probabile di un processo sviluppatosi … per tentativi ed errori, il quale aveva loro insegnato che alcune parti era necessario mangiarle subito pena l loro deterioramento, altre erano più idonee per un consumo un poco più prolungato nel tempo, altre ancora potevano essere conservate ad alcune condizioni, vale a dire una serie di manipolazioni tra le quali, la più diffusa l’essiccamento e la triturazione con l’aggiunta di altre sostanze come le bacche selvatiche ricche di tannini ed il grasso che, seppur in minima parte, riusciva tuttavia a limitare il contatto della carne con l’aria.
L’abitudine crea poi i gusti e determina anche lo sviluppo di procedure e di stabili comportamenti, quali ad esempio tecniche specifiche di macellazione, così come si può vedere anche da quest’altro esempio “… I cacciatori tagliarono poi la lingua dell’animale e rimossero lo strato esterno di carne dal dorso e dai fianchi rimuovendolo in un pezzo solo. I quarti anteriori e quelli posteriori vennero staccati dalla giuntura dell’anca, la gobba grassa venne tagliata all’osso della spina dorsale e il restante strato di carne sui costati e sul ventre tagliato in due parti …. Quando s’incamminarono per tornare al campo, ben poco restava per i lupi …”. Qui, non vi è dubbio, c’è professionalità … la carne è cibo! La macellazione è propedeutica alle diverse tecniche di cottura o conservazione.